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Mastantuono senza Erre-libro 2024

Mastantuono senza Erre

Aver dormito sul treno, su un materazzo non precisamente sterilizzato avrebbe potuto avere conseguenze nefaste. Il maestro fu talmente garbato che non saprò mai se fece finta di non avvertire il nauseabondo olezzo o fui io abile a tenermi sottovento.

Tornai a casa con una dermadite e una sceneggiatura di trenta tavole, Zio Paperone e l’unica giovialità di Fabio Michelini.

Mi dedicai alla storia per le settimane successive. Pur cogliendo la differenza tra le mie tavole e quelle dei bravi professionisti, ero rassegnato e impotente. Non sapevo come intervenire e allora tiravo avanti accontentandomi. Mi ricordo, però, che verso la ventesima pagina guardai con soddisfazione una vignetta. Sembrava “vera”, disegnata da quegli altri, quelli gagliardi, i bravi professionisti. Ero riuscito finalmente a mettere i paperi in uno spazio, in maniera credibile e funzionale.

Mi esaltai, ma era stato un caso.

Nonostante tutto entravo ufficialmente a far parte di un gruppetto di sciamannati male assortiti di cui io ero l’unico a non risiedere a Milano. Le correzioni avvenivano per telefono.

- Tavola 12, vignetta 2, accorcia il becco di Paperino! Tavola 16, vignetta 4, riguardati le proporzioni di Paperone...

 Con molta pazienza e affetto, a suon di spifferi ansimanti, Carpi mi orientò all’interno dello stile Disney. Ci teneva a far emergere la mia personalità, trovare la mia strada. Illuso. Guardava le mie tavole intrise di passione per Cavazzano. Abbassava gli occhiali, mi fissava. Soffiava.

- Nessuno inventa nulla da zero e anche io, come tutti, ho avuto influenze e amori importanti per la mia formazione. Spero di avere sufficiente lucidità per forgiare e plasmare queste influenze facendole diventare un arricchimento e non un limite.

Nel disegno grottesco non si fa altro che stravolgere le cose tramutandole in oggetti caricaturati. Si gioca con le forme e una semplice automobile diventa grassa, depressa, stizzita, ma funziona solo a patto che il veicolo rimanga riconoscibile e credibile.

Dopo anni nell’animazione il mio tratto aveva già un’autonoma tendenza umoristica ma i character Disney erano suscettibili, permalosi, molto lontani dai modelli affrontati. Pertanto i personaggi secondari mi sfuggivano di mano, impertinenti, incoerenti graficamente e fuori contesto. Dovevo metabolizzare quel mondo, memorizzarne i canoni estetici e riprodurli senza tentennamenti. Che proporzioni si applicano a Paperino? C’era modo di finire almeno una vignetta senza poi essere costretto a rimpicciolire la testa? Il becco poi era un buco nero nel quale sparivano tutte le mie certezze. Com’era costruito? Su quale logica si puntellava? Da quale punto bisognava partire? Più lungo? Più corto? I solchi di grafite risucchiavano la luce ma quel che ne usciva, pur somigliando a Paperino, non era lui. La frustrazione toccava vette da perpetue schicchere allo scroto ma niente al confronto del ripasso a pennello. Una tecnica completamente nuova che esigeva mano ferma, segno lento, sensibiltà calligrafica in apnee alla Maiorca. Tavola da “Zio Paperone e il tiranno dei mari”, Topolino n.3000, 28.05.2013.

 

 Il mio segno nervoso, quasi isterico, per mesi non ne volle sapere di immergersi in questa disciplina in assetto variabile.

Ci vollero pile di storie disegnate prima che la confidenza con quell’universo mi facesse lavorare con più disinvoltura.

La pubblicazione della mia prima storia su Topolino fu un’attesa interminabile. All’epoca sulla lettera d’incarico veniva già segnato il numero dell’albo sul quale sarebbe stata pubblicata. Facendo due conti avrei dovuto aspettare quattordici mesi, la gestazione di un’elefantessa indiana.

Quando finalmente sfogliai l’albo fresco di stampa trovai tutto insopportabilmente piccolo e confuso ma accolsi il mio personale Dumbo-stampato come un dono dal cielo. Il risultato inaspettatamente era vagamente professionale.

Dovevo essere grato ai disegnatori Disney. Ci sono autori di così alto spessore nel presente e nel passato della Disney che avere avuto come references le loro storie e le loro soluzioni grafiche fu un faro nella notte: le orecchie di Topolino sono uguali sia che lui sia frontale che di profilo, questo per una questione estetica, lo stesso avviene per certe espressioni nel becco di Paperino. Si adottano soluzioni dove il rigore viene accantonato e avere un archivio d’immagini da depretare e un repertorio iconografico infinito permette alla linea grafica un rinnovamento continuo con fremiti di originalità.

Il mio approccio alla tavola nel tempo si è affinato e ha maturato una serie di condizioni tra il pratico e il paranoico.

È mia abitudine lavorare subito in bella copia, sulla tavola, senza realizzare schizzi preparatori. Un eventuale passaggio, dal primo schizzo al cartoncino della “bella”, raffredda e irrigidisce il disegno. Non ci casco. Ci tengo a quel po’ di anima che rende il primo schizzo vibrante e credibile. Il lavoro a matita è maniacalmente progressivo: si parte dalla prima vignetta in alto a sinistra e si scende senza indugi, fino a chiudere la tavola in basso a destra. È la mia personale ossessione, sono incapace di passare alla vignetta successiva finché non ho completato quella in lavorazione. Anche quando sarebbe bene passare oltre, anche quando la documentazione non mi assiste e l’ispirazione vaga nella bruma dispersa in refoli di banalità. In cerca della strada di casa si invecchia sulla vignetta in attesa di venti favorevoli che ripristinino la rotta.

Non faccio studi dei personaggi. Vedere sotto la voce: taglio dei tempi morti. Lavoro molto sulla tavola, metodo che espone a rischi ma aggiunge scorciatoie.

Quando compare un nuovo personaggio mi dilungo in prove direttamente sulla vignetta, sperimento proporzioni, aggiungo e tolgo elementi decorativi: cappello, occhiali, cravatte, bretelle, baffi, acconciature, identikit per definirlo e identificarlo, fino a quando il risultato mi diverte. Diverte significa buono. Farà da riferimento per i disegni successivi e lunga vita alle scorciatoie.

Quasi sempre funziona. Qualche volta si torna sui propri passi per correggere qualche caratteristica ostica, o aspetti psicologici o fisici o estetici scoperti sceneggiatura leggendo.

Si applica anche al realistico, l’approccio è simile.

A colpi di 30/40 tavole ci si ingegna a definire prima i disegni a matita, poi il ripasso a china, che presuppone l’abbandono quasi totale di una delle due fasi per parecchi giorni, settimane, mesi, con il rischio di scoprirsi arrugginiti al giro di boa. Per Disney da un po’ anni mi soccorre Alessandro Zemolin, valente ripassatore china- munito dal segno gentile e maniacale, dimezzando di fatto i tempi di realizzazione.

Avrei potuto prosperare con metodicità in una vita senza sorprese e invece dopo qualche anno arrivò puntuale il capriccio d’artista. Una nuova sfida faceva capolino nel mio capoccione irrequieto. Meglio i pidocchi.

Già con la ComicArt avevo scritto delle sceneggiature e mi proposi anche per Topolino. Ero già pronto a festeggiare l’evento avvalendomi di una grande festa di apertura, uno stand fieristico itinerante che pubblicizzasse il passaggio ad autore completo, un lancio di volantini da biplano e una convention annuale che ricordasse lo straordinario fenomeno col supporto dei migliori architetti, creativi e sognatori. Il capo-redattore però era molto prudente e non vedeva di buon occhio la contaminazione dei ruoli. Massimo Marconi poggiò delicatamente la mano sulla mia spalla invitandomi a proseguire con quello che sapevo fare meglio.

- Sai disegnare? Allora disegna!

Era il mantra che sfoggiava nelle grandi occasioni, quando doveva sottintendere la bocciatura senza appello.

Dovetti aspettare l’arrivo di Ezio Sisto per avere nel 1997 la prima occasione con la storia “Paperino e la macchina della conoscenza”. Mi accordò piena fiducia e, soggetto dopo soggetto, sceneggiatura dopo sceneggiatura, le storie si moltiplicarono.

Entro nel dettaglio. Lo sviluppo dei miei soggetti, sia che le storie siano destinate ai miei disegni o a quello di altri, è analogo. Si scrive, si cancella, si sposta, si riscrive tutto. Questa è una fase di lavoro che serve, oltre che a mettere a fuoco i vari punti di una storia, a dialogare con la redazione. Se c’è qualche passaggio che non convince si interviene bestemmiando, limando e correggendo. Per questo motivo spesso i miei soggetti sono piuttosto dettagliati con già tutti i passaggi e i dialoghi più significativi. Non voglio sorprese.

Tutto quello che vale per i soggetti non vale per le sceneggiature. Eh, troppo comodo!

Il bravo sceneggiatore mette solo quello che serve. Gli inutili dettagli distraggono chi poi deve dare un’interpretazione grafica. Recitazione, atmosfere e registro narrativo devono essere evocati senza compiacimenti. Il bravo sceneggiatore ha capacità di sintesi che non significa in nessuna maniera approssimazione e pressappochismo.

Il bravo sceneggiatore poi può anche disegnare, come nel caso di Nino Russo, François Corteggiani, Casty. Le sceneggiature disegnate, pur essendo godibilissime e di facile lettura, io le ho sempre sofferte. Imbrigliano un poco il mio processo creativo che invece nasce spontaneo quando ho a che fare con quelle scritte. Bravo sceneggiatore artista imbrattacarte, perdonami!

Le mie sceneggiature sono molto scarne e vanno dritte al punto. Si limitano ai dialoghi e ai movimenti di scena. Aggiungo le azioni più rilevanti e qualche generica descrizione ma, avendo già in mente tutte le sequenze, mi risparmio molti dettagli superflui. Solo descrizione di tempo, di luogo, regia, recitazione e stati d’animo, cuocere a fuoco lento.

Sotto i dialoghi q. b.

In quelle destinate ad altri c’è invece prima di tutto lo sforzo di immedesimarmi empaticamente col disegnatore di turno per facilitare il suo lavoro, adeguare il racconto al suo stile, evitare i suoi isterici rimbrotti e eventuali telefonate sfinenti...(continua)